LE TRANSUMANZE DI SUINI IN TOSCANA  E NEL MEZZOGIORNO

LE TRANSUMANZE DI SUINI IN TOSCANA  E NEL MEZZOGIORNO

  1. Cristoferi, «…In passaggio, andando e tornando…»: per un quadro delle transumanze in Toscana tra XII e XV secolo, «Rivista di Storia dell’Agricoltura», LIX (2019), 1, pp. 3-82 [«…to be passing through, going and going back…»: a study of transhumance in Tuscany between 12th and 15th c.]. ISSN: 0557-1359

Transumanze di suini, infine, alla ricerca di nuovi pascoli a ghianda, sono note sia dal contado volterrano verso Prata (1413), sia verso il confine col Patrimonio di S. Pietro (1415), mentre sono noti movimenti di bovini e ovini dalla Val di Chiana alla vicina Val d’Orcia[1].

Le denunce degli animali razziati e delle evasioni dell’erbatico attestati nei registri consiliari senesi costituiscono una delle poche fonti affidabili per conoscere le dimensioni medie di mandrie e greggi transumanti e il loro valore per la Toscana tardomedievale162. Il totale degli animali denunciati fra 1353 e 1419 nei registri del Consiglio generale e del Concistoro di Siena segnala circa 12.000 fra pecore, castroni, agnelli e montoni e 2.000 fra vacche, vitelle, buoi e bufale – cioè 1 bovino fidato in Dogana ogni 6 ovini –, mentre i suini registrati sono 5251.

Le greggi erano formate di norma da 200-500 ovini, esclusi gli agnelli, sebbene alcune raggiungessero dimensioni più ampie, soprattutto nel Quattrocento, come le 1.718 pecore di Antonio di Compagnuccio da Sarteano e le 2.900 di Pighetta da Firenze165. Il valore di ogni capo si aggirava intorno a 1 fiorino, mentre quello dei suini, riuniti anch’essi, a volte, in centinaia di animali fra scrofe e porcelli, era di poco superiore.[2]

La transumanza era effettuata da conversi e pastori specializzati, che ricevevano un salario e potevano imbrancare il proprio bestiame bovino con quello del monastero in cambio di una quota di prodotti o in moneta; entrate e uscite erano invece controllate dal camerlengo di Vallombrosa. Il gregge, costituito da 450 ovini, non risiedeva sempre e solo in val di Cornia, ma si recava anche nella Maremma pisana e senese: i conversi ricevevano lettere di cambio per il pagamento in fiorini delle pasture invernali e per l’acquisto di suini da ingrasso, allevati poi da un porcaio sul Pratomagno. Qui, in estate, il gregge era integrato con bestiame di altri proprietari fino a 400 pecore, generando ulteriori entrate per il monastero199 .

Dimensione produttiva e mercati Entità della produzione e della distribuzione, ovvero le dinamiche della domanda e dell’offerta, come il valore dei prodotti legati al movimento stagionale di bestiame in Toscana, sono scarsamente conosciuti e possono essere compresi solo all’interno della più ampia economia dell’allevamento regionale, un settore fondamentale per questa «terra di città», a fianco della produzione laniera e di quella vitivinicola. Da questo settore, è banale ripeterlo, derivavano carne, lana, pellami, prodotti caseari, grassi e animali da lavoro, fondamentali per l’annona, il tessile, la conceria, l’agricoltura nella Toscana all’acme del suo sviluppo economico e produttivo231. Nel quadro dell’allevamento toscano del Quattrocento, la transumanza era un ambito rilevante ma non maggioritario: i capi stanziali – ovini, bovini, suini –, erano probabilmente la maggioranza, come in età moderna232. Il calcolo di 63-90.000 pecore transumanti nei pascoli della Dogana fra 1417-18 e un «quadernuccio di dare e avere» di don Antonio Tricerchi, parroco in Valdarbia, nel contado di Siena, nella seconda metà del XV sec., hanno costituito il punto di partenza per quantificare, o meglio ipotizzare, le dimensioni produttive di questo fenomeno per il bestiame ovino, mentre mancano dati affidabili per i bovini233 .

 

Nel 1312 in seguito all’omicidio di Naldo di Arcolano Ruffaldi di Siena, ucciso a Norcia mentre si recava in Puglia per comprare del bestiame, i parenti e soci chiesero al governo senese il diritto di rappresaglia, ricordando che era grazie a uomini come loro se la città di Siena veniva rifornita di grasciam et victualiam. Nel 1329 una compagnia per il commercio del bestiame fu stipulata fra Lapuccio di Tieri beccaio di Incisa e Zanobi di Pacino beccaio di Firenze: in 7 anni acquistò bestiame in tutta Italia per 30.000 f. Dalla Puglia erano recati ogni anno, entro la prima metà del Trecento, 30.000 castroni a Siena e 15.000 ovini a Firenze (Costantini, «Carnifices sive mercatores bestiarum», cit., pp. 130-131; De La Roncière, Firenze e le sue campagne nel Trecento: mercanti, produzioni e traffici, cit., pp. 167-192, 272, 544). In Abruzzo, tra 1453-1470, dalle fiere di Lanciano vennero esportati 48.206 capi di bestiame e da quelle Castel di Sangro 16.472 animali verso Umbria, Romagna e Marche. Lanciano esportava sopratutto bovini e suini, oltre a 1/3 del totale degli ovini esportati e pochi equini; Castel di Sangro forniva quasi esclusivamente ovini (B. Dini, La circolazione dei prodotti (secc. VI-XVIII), in Storia dell’agricoltura italiana: Il medioevo e l’età moderna, cit., pp. 383-448: 413-414)

 

Al di sopra della “linea gotica”, che, in una immagine classica, dividerebbe l’Italia continentale dei bovini e dei suini da quella mediterranea della tradizione pastorale, la pecora è tutt’altro che assente. A partire dalla catena alpina, la cui economia, poggiata sulla utilizzazione multipla di risorse scarse, è riscattata nella storiografia recente dalle interpretazioni miserabilistiche e riproposta come un ambiente di insediamento saldamente strutturato e regolato da bassi tassi demografici. «Il medesimo paesano – scrive a proposito dell’alto comasco Melchiorre Gioia, uno dei maggiori costruttori di immagini pessimistiche dell’economia montana – è talvolta nel tempo medesimo proprietario, mezzatico, affittuario, livellario a patti diversi con diversi padroni in terreni simili»,6 oltre che utilizzatore dei vasti demani comunali che si inerpicano verso le cime

Saverio Russo Biagio Salvemini Ragion pastorale, ragion di stato Spazi dell’allevamento e spazi del potere nell’Italia di età moderna

Nei vasti paesaggi “a campi ed erba”, viceversa, gli animali diventano una presenza costitutiva. Gli ovini dominano ovunque, limitando lo spazio degli animali concorrenti, in particolare dei suini, con i quali la convivenza è particolarmente difficile: ad esempio, nel Cinquecento la pattuizione di tempi di accesso differenziati nel bosco di Ruvo di Puglia fra i porci del feudatario e le pecore dei locati abruzzesi fallisce perché, dopo il passaggio nelle mandrie suine, non c’è più erba da brucare;31 e quando, all’inizio del Settecento, si tenta di rispondere alle grandi invasioni di cavallette nel Tavoliere precettando i porci del Subappennino dauno, del Gargano, delle Murge, della Basilicata, perché, lasciati al pascolo, mangino anche le uova dei “bruchi”, i pastori reagiscono con la violenza perché trovano le erbe strappate dalle radici.32 Ma il maiale domestico popola le strade dei borghi, e diventa una presenza significativa, organizzata in grandi “morre” allevate al pascolo vagante, ovunque le risorse di erba sono sufficienti ad evitare contiguità strette con le pecore: ad esempio nei boschi di querce siciliani. Come dice Galanti, è la diffusione dei boschi ghiandiferi che rende l’“industria” dei suini «facile e abbondante».34 All’interno di queste “morre” la selezione delle razze è pressoché nulla data l’impossibilità di controllare il “commercio”, oltremodo frequente, fra maiali e cinghiali.35 Comunque, a parte l’autoconsumo, questi animali variegati producono carne ampiamente assorbita dalla domanda urbana, soprattutto nella fase precedente la quaresima. Le forme contrattuali affidano mandrie di animali a “buccieri” urbani che li nutrono e li macellano man mano, e consegnano ai proprietari il ricavato della vendita della carne di ciascun animale trattenendo il proprio compenso.36

Note:

  1. Galanti, Della descrizione geografica, I, p. 146. 35. Toggia, Intorno all’educazione, p. 14. In Sardegna nel 1771 venivano numerati 131 mila maiali non domestici, contro soli 33 mila domestici (Day, Bonin, Calia, Jelinski, Atlas de la Sardaigne rurale, p. 107). 36. Vedi, ad esempio, Archivio di Stato, Bari, notaio Caiasso, Monopoli, atto gennaio 1610, giorno 4. 37. Barsanti, Allevamento e transumanza, pp. 113 e 125. 38. Cfr. Palumbo, Cenni sull’estensione e distribuzione, in particolare p. 12. 39. Casilli, Patrimonio zootecnico, II, in particolare pp. 506-507

 

In Calabria nel patrimonio dei principi di Bisignano al 1594 ci sono 14261 pecore e capre, 657 buoi, vacche e bufali – animali questi ultimi con pretese maggiori sulle risorse ma più efficaci nei terreni pesanti49 – ed una mandria di suini;50 ed i duchi di Corigliano posseggono nel 1700 19.746 capi, nel 1740.

 

Persino i suini, che nelle pratiche odierne sono emblematicamente legati allo spazio ristretto della porcilaia, si muovono spesso a lunga distanza durante le fasi del loro allevamento. Quelli che, ad esempio, ancora nel primo Ottocento si allevano in Abruzzo citra «non tutti nascono nella Provincia, ma dalla Puglia per lo più vengono le cosiddette morre, le quali si ingrassano in questa provincia, ed ingrassate si vendono nei mercati e nelle fiere per lo più ai negozianti di Capua».2

Nella pontificia Bologna, tra fine Cinquecento e fine Settecento, netta – sia pure in calo nel XVIII secolo – è la prevalenza della carne bovina, mentre un buon numero di suini macellati è utilizzato soprattutto per la produzione di insaccati. Limitato sul mercato felsineo, sia pure in netta crescita nel Settecento e nel primo Ottocento, è il numero di agnelli, capretti, castrati e pecore macellati.71

 

C’è poi da considerare la produzione di carni lavorate, di salumi e “salate”, ovviamente particolarmente importante per i suini. Nel Mezzogiorno il solo Cilento produrrebbe a fine Settecento 50 mila cantaia di carne salata di maiale, ma importante è la produzione di salumi anche in Abruzzo, in Terra di Lavoro, ad esempio a San Germano, dove si producono «gustosi e dilicati salami»,155 in Calabria citra, da dove in tempi di commercio normale ci sarebbero significative estrazioni in Sicilia e a Livorno, oltre che in direzione della vorace Napoli.156

 

Nella Toscana medicea, nella Dogana della Maremma senese e grossetana svernano a fine Cinquecento 18 mila vacche, alle quali vanno aggiunte, oltre agli equini transumanti, i suini, rigorosamente banditi invece dai pascoli pugliesi: dei 13 mila porci censiti in Maremma a fine Cinquecento, almeno un quarto sono “forestieri”.15 Nel Settecento anche nel Granducato di Toscana la transumanza sarà più marcatamente ovina, essendo divenuta pressocché nulla la presenza dei suini e ridottissima quella dei bovini e degli equini.

Gruppi di individui, comunità locali dotate di livelli vari di istituzionalizzate, casate feudali di primo piano, ufficiali provinciali e centrali del viceregno napoletano, concorrono e confliggono per l’accesso alle risorse agro-silvo-pastorali, con la solita sequela di “appadronamenti” di demanio per la semina che prolungano l’esclusione del bestiame al pascolo sul suolo “appadronato” anche dopo la raccolta, costruzione di “parchi” e “difese” invase dagli animali di chi non ne riconosce la legittimità, costituzione di “parate” dei frutti pendenti che tentano  invano di escludere l’accesso dei suini al bosco, appropriazione di acque, aggressione al bosco, sequestri di animali: una dialettica serrata, spesso cruenta, che dà vita ad un gioco mutevole di alleanze e contrapposizioni sottolineato con forza dalla storiografia recente.11(142 Ragion pastorale, ragion di stato)

 

Le “molte differenze” non solo fra l’università di Martina e quelle contermini, ma anche fra l’università ed il duca rimangono ben evidenti nella sistemazione degli anni Venti del Settecento, ed emergono con forza nel documento che la dovrebbe sancire. Non è certo sorprendente che negli anni Quaranta, quando questo centro di circa 9000 abitanti fa registrare nel catasto conciario, oltre ai soliti asini e muli, circa 20.000 ovini, 5.000 suini, grosse mandrie di bovini ed una cospicua produzione di cuoi e lane, la contesa sugli spazi pastorali fra Martina ed il suo duca riesploda fragorosamente, e che quest’ultimo debba farsi proteggere da una guardia armata composta da cinquanta artigiani ripagati a spese altrui, con l’esenzione dalla “tassa inter cives” imposta dall’università stessa.23

 

Ovviamente non si tratta di una pratica solo napoletana. “Gravissimo” è, ad esempio, a fine Seicento, il “dispendio” per l’allevamento dei fagiani nelle due bandite granducali di Coltano e San Rossore, presso Pisa;50 non meno rilevante è – nella seconda metà del XV secolo – la quantità di ghiande consumata per alimentare i cinghialetti nel Barco estense di Belfiore, presso Ferrara, o di fieno, cereali inferiori, melica, fave che servono per il nutrimento di daini, cervi, caprioli, anatre “selvadege”, conigli, pernici, fagiani e animali esotici che ne popolano i boschi e i giardini.51

 

Gli animali selvatici, in attesa del Sovrano e del suo numeroso seguito, frequentemente dilagano. Lo stesso Duca di Bovino, nel 1768, è costretto a protestare per i gravi danni ai seminati all’esterno della riserva, provocati dai daini e dagli altri animali selvatici «cresciuti in numero eccessivo». I daini – denuncia un massaro di campo – si introducono nei campi seminati «a guisa di morra di pecore»,44 mentre non è possibile “smacchiare” o “spurgare” la difesa di Cervellino, asservita alla Regia Caccia, benché si sia «resa tanto boscosa, cispigliosa e spinosa che li suoi [di Orsara] cittadini non ci possono praticare li animali vaccini», perché in queste condizioni viene ritenuta perfetta per accogliere i cinghiali.45

 

 

[1]  Si vedano i seguenti casi: nel 1413 Checco di Michele porcaio di Castelnuovo Val di Cecina venne arrestato per violenza contro Giovanni di Stefano contadino di Prata (ASS, Consiglio generale, Delibere, 206, c. 74v 3 ottobre 1413); nel 1415 Pietro di Simonello da Pereta subì il furto dei porci che aveva condotto nei paschi di Siena presso Montagutolo del Patrimonio (ASS, Concistoro, Scritture concistoriali, 2142, c. 48r 9-25 ottobre 1415); nel 1417 Giacomo di Neri e Domenico di Vannuccio da Chianciano immisero 40 bestie vaccine e oltre 300 ovine nei pascoli di Contignano in Valdorcia (ASS, Consiglio generale, Delibere, 208, cc. 19r-19v 20 giugno 1417).

[2] Il gregge di 500 capi di Batista di Lando da Montalcino valeva 500 f. (ASS, Consiglio generale, Deliberazioni, 192, c. 90r 17 maggio 1383). Le 50 scrofe e i 100 porcelli di Agnolo di Nuto sono valutati complessivamente 200 f. (ASS, Consiglio generale, Deliberazioni, 192, c. 88v 17 maggio 1383). Un’ampia e dettagliata panoramica sull’allevamento e il valore di mercato senese di animali transumanti e non è presente in Costantini, «Carnifices sive mercatores bestiarum», cit., pp. 105-135. 167 .