Uno scambio di opinioni in FB : post/chat con Paolo Brutti

Da queste elezioni americane ho imparato a detestare due cose, il trumpismo e gli americanisti. Sul primo non aggiungo parole, se non un po’ di pena per i blue-collar che seguitano a votare per un riccastro proprietario di case di gioco e campi di golf considerandolo uno di loro.
Sul secondo termine serve qualche precisazione. Americanismo, lo prendo da Gramsci, è quel modo di pensare per cui ciò che accade in America sia il futuro di tutti i paesi industrializzati. È diffuso anche a sinistra tra l’amoroso entusiasmo dei Veltroniani e l’odio grigio dei Cossuttiani.
Per tutti loro l’America è un faro, verde per gli uni e rosso per gli altri. Invece l’America è una nazione in decadenza, dominata da un capitalismo animale e primitivo che si auto divora in una fame finanziaria inesausta.
In quel frullatore i democratici stanno insieme solo perché il sistema elettorale presidenziale e maggioritario c’è li costringe. Se i voti dei grandi elettori venissero distribuiti stato per stato in proporzione ai risultati dei vari candidati tutto il sistema cambierebbe natura.
È la democrazia europea il faro di quella americana e Ocasio Cortez e Sanders lo sanno bene. Biden non è un unificatore ma un politico accorto che ha saputo mettere insieme una coalizione eterogenea con molte probabilità di disfarsi. Nello stato delle disuguaglianze la battaglia non si vince al centro, come mostra il voto ispanico. Si vince sui movimenti e prendendo coscienza che in America c’è una frattura di classe larga come il Grande Canyon e che l’ascendore sociale americano è rotto anche se Kamala Harrys non sembra crederlo.
Cosa possono fare i democratici americani? Salvare il capitalismo da se stesso, civilizzandolo e riformandolo come hanno cercato di fare gli europei. Bestemmio in chiesa (cioè sul Das Kapital) e sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo? Sono in buona compagnia. Anche il PCC ammette che i capitalisti privati e pubblici si approprino del plusvalore dei loro dipendenti. Forse al prossimo congresso scopriranno il sindacato.
Poi c’è il tema dei democratici americani e la guerra ma, come disse Fermat del suo celebre teorema, non ho spazio per mostrarlo in questo margine di foglio.
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Paolo Brutti è un intellettuale dalle molteplici esperienze , anche nello scenario della politica. Egli affronta tematiche con proprietà di linguaggio e sapiente dosaggio di riferimenti, anche di dotta cultura. Tuttavia nella sua analisi, eppure sintetica , della società statunitense, come appare anche recentemente ai suoi occhi di disincantato uomo della sinistra, ma non troppo, egli dimentica una valutazione fondamantale; quella della democrazia liberale che la caratterizza da sempre. Ed il termine, democrazia-liberale, non a caso abbina due valenze di popolo, fondamentali. I tre poteri istituzionali , legislativo, esecutivo e giudiziario , tutti e tre sono diretti “verso e da il popolo (bottom up/top down)”. Tutto il popolo, come status symbol e singoli cittadini ne è consapevole e formato culturalmete e didatticamente a tale consapevlezza. Gli U.S.A. inoltre sono uno Stato liberale , perchè l’individuo è al centro del processo di formazione della decisioni (D.M.U.) , politiche ed economiche; e se ne sa assumere le responsabilità; a tal punto che negli U.S.A. la divaricazione , il gap sociale ed economico fra le categorie è fra i più equilibrati nel mondo (Nella foto: Differenze in uguaglianza dei redditi tra le nazioni del mondo come misurate dal coefficiente di Gini nazionale. Il coefficiente di Gini è un numero tra 0 e 1, dove 0 corrisponde alla uguaglianza perfetta (nella quale tutti hanno lo stesso reddito) e 1 corrisponde alla disuguaglianza assoluta (dove una persona ha tutto il reddito e tutti gli altri hanno reddito nullo).In conclusione: c’è ben poco da criticare , soprattutto se andiamo a guardare, privi di lenti da presbite della retorica fenomeni di storia contemporanea di ier e o da miopi di cronaca politica di oggi ,