E che “Dio ce la mandi buona”. E non è un’espressione scolastica (te la ricordi, Vittorio!) sulla supplente a sostituire la titolare della cattedra d’italiano, piuttosto acida e bruttina del liceo
Da: rino.fruttini@gmail.com
A: direzione@liberoquotidiano.it
Inviata: lunedì 2 ottobre 2017, 13:49
Oggetto: E che “Dio ce la mandi buona”. E non è un’espressione scolastica (te la ricordi, Vittorio!) sulla supplente a sostituire la titolare della cattedra d’italiano, piuttosto acida e bruttina del liceo.
Caro Vittorio,
il fenomeno della rivendicazione di autonomia di popolazioni che, avendo riscoperto una loro distinta identità geografica, politica, culturale se non anche di etnia tribale, intendono farne strumento di consolidamento ideologico, nel perseguimento dell’autogoverno, separato da quello centrale, al quale finora avevano fatto capo, si sta propagando in diverse parti del mondo. La Cecenia dalla Russia, la California dagli USA, il Kurdistan dall’Iraq, la Catalogna dalla Spagna, ed infine non poteva mancare, per il fenomeno del “me too”, Lombardia e Veneto che non vogliono dipendere da Roma.
Il fenomeno del “me too” è una delle tecniche della ricerca di marketing per catalogare due categorie di acquirenti di nuovi prodotti: i “creativi” ed i “passivi”, caratterizzati anche da diversi interessi e attività quotidiane, ma visti unicamente in quanto strettamente legati al fenomeno di consumo considerato. La Lega di Salvini, ora sovranista, ma fino all’altro ieri secessionista/autonomista, da poco ha scoperto, con la tecnica passiva del “me too” che anche in Italia è “cosa buona e giusta” organizzare il referendum per l’autonomia da “Roma ladrona”. Certo, i fenomeni con le loro problematiche, sono ben diversi fra loro. La Cecenia, ad esempio, aveva ragioni non indifferenti per sganciarsi da una Russia oppressiva e prepotente. Il Kurdistan in questi giorni intende non farsi depredare dall’Iraq delle sue risorse petrolifere. Ma California in USA, Catalogna in Spagna e Lombardo-Veneto in Italia ed in Europa, come possono le loro popolazioni e i loro governanti volere più autonomia rispetto al governo centrale, più di quanto non ne abbiano tuttora.
E qui intendo aprire una parentesi di logica evoluzione della storia contemporanea, per quanto riguarda noi italiani. Ci sono volute tre guerre di indipendenza per portare le due terre redente nel recinto dello stato sabaudo piemontese, prima, e repubblicano nazionale italiano, poi. Passi per la Lombardia, che già allora era una regione economicamente autonoma e ad un buon livello di reddito pro-capite. Ma il Veneto, colonia asburgica, era un aggregato di poveri disgraziati, con le pezze al culo, decimati da ricorrenti morie di pellagra che grazie alla protervia volontà dei suoi giovani se la cavò fino al ventennio fascista con l’emigrazione nelle lontane Americhe. Poi con Mussolini al governo, dal 1925 decine di migliaia di veneti partirono, imbarcati sui piroscafi per sfruttare le risorse agricole dell’Africa Orientale (il petrolio ancora non era lo strumento di industrializzazione che ben conosciamo) ; i più fortunati invece emigrarono nel Meridione a concludere la bonifica dell’Agro Pontino o del’Agro Metapontino, o quella del grossetano, tanto per citarne alcune. Nel dopoguerra il Veneto cambiò pelle, connotati e stile di vita. Oggi guida la classifica europea del benessere, dell’efficienza delle proprie imprese, dell’efficacia dei servizi pubblici, della produttività dell’intero sistema. Una regione modello, dunque. Ma i veneti, ed a maggior ragione i lombardi, che non sono da meno per il Guinnes di simili primati, ora vogliono soprattutto una cosa; l’intervista del Governatore Zaia alla trasmissione della Annunziata, “1/2 ora in più” ce lo ha confermato poche ore fa: autonomia amministrativo finanziaria come quella della regione a statuto speciale Trentino-Alto Adige. Il che significa non versare un euro all’erario statale, ma trattenere tutto il gettito nella tesoreria regionale di Venezia e Milano. Evidentemente Zaia ed i suoi sodali non conoscono la storia dell’Alto Adige, un lembo di terra in cui la maggioranza etnica era di lingua tedesca e non aveva alcuna voglia di essere tolta alla madre patria austriaca, sconfitta dall’Italia nella prima guerra mondiale. Vale la pena leggere, dell’altoatesina Lilli Gruber, il libro Eredità in cui emerge tutto l’attaccamento dei suoi genitori e nonni verso le tradizioni austro-ungariche e la disciplina degli junker teutonici.
L’unica vera motivazione a fronte del referendum è dunque di ordine economico. I lombardo-veneti affermano che il differenziale di imposte e tasse che va a Roma e che non ritorna a Milano e Venezia, attraverso i trasferimenti a Regione, Province e Comuni, ammonta a 70 miliardi di euro. Ebbene, questo malloppo che viene sottratto al valore aggiunto del loro PIL deve essere governato da loro. Veneti e lombardi decidono, in base ad un loro criterio di solidarietà patriottico-sovranista, se, come e quando trasferirlo, con progetti da loro elaborati gestiti e controllati nelle regioni che meno di loro godono dello sviluppo delle proprio lavoro e stante la scarsità degli altri fattori della produzione.
Se viene accettato questo sperequato criterio di distribuzione del reddito, viene meno il principio di nazionalità e cittadinanza, ovvero di Stato rappresentativo del popolo italiano. Ed ancor più si compromette il processo di unificazione politica dello Stato Europeo. Ma in fondo questo è il vero obiettivo di tutta questa manfrina di scombussolamento di quelle poche certezza che ancora l’opinione pubblica può far valere verso l’Europa, politicamente unificata o statalmente federata.
In realtà fin da ora i lombardo-veneti sono chiamati alla gestione del gettito tributario nazionale, anche di quello generato dal loro processo economico industriale, partecipando alla rappresentazione elettorale, attiva e passiva, degli organi nazionali, Parlamento e Governo in primo luogo. Ed allora tutto questo inutile ambaradan di mobilitazione non avrebbe alcun significato se non facesse correre il rischio, o la opportunità, secondo il punto di vista leghista di Matteo Salvini, di una secessione.
E qui caro Vittorio, e mi devi scusare se solo ora ti coinvolgo in prima persona, in questo mio dire, mi viene in mente quanto il saggio e maturo Gianpaolo Pansa preconizzò settimane or sono al salotto televisivo “Otto ½” della Lilli esternando le sue preoccupazioni di una imminente e probabile rivoluzione nelle italiche contrade, poiché molti, troppi erano i motivi del contendere; e neppure tutti ben chiari e definiti. E sappiamo tutti come dalla massima di Mao Tze Tung: “Grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente”, possano emergere scenari al cui confronto il pericolo per la democrazia di un Renzi, “solo al comando”, all’indomani di un risultato referendario positivo di riforma costituzionale del 4 dicembre 2016 fa semplicemente sorridere.
Ed in un contesto di referendum consultivi, seppure parziali regionali, ci si può anche intravvedere una contestazione “lombardo-veneta dietrologica” secessionista verso nostalgie asburgiche; in fondo sarebbe preferibile, secondo alcuni, Berlino e/o Vienna ladroni, anziché Roma, come per l’Alto Adige! Solo che, se gli Alto Atesini fecero veder i sorci verdi alla polizia italiana, con le loro sanguinose smanie secessionistiche e attività terroristiche degli anni ’50-’60, non mi pare che i lombardi veneti possano vantare un pitigry di tale specie. Né tanto meno abbiano voglia di distruggere tralicci e divellere rotaie di linee ferroviarie.
Spero che i due referendum si risolvano con una messa in scena pre elettorale voluta dalla Lega di Salvini per aumentare il proprio valore aggiunto di una politica nordista, visto che le trasferte sovraniste nel Mezzogiorno finora non hanno dato i risultati sperati. Ma alla lunga l’opportunismo camaleontico di Matteo Salvini non paga. L’operazione di centro-destra, sovranista con Gianfranco Fini al Sud, leghista secessionista con Bossi al Nord e adulterata da una Forza Italia aziendalista di Berlusconi estesa a macchia di leopardo in tutta Italia fu l’armata brancaleone vincente nelle elezioni del 1994 ed a seguire. Ma poi se n’è vista l’evoluzione.
Non c’è pace nella politica dei movimenti e dei partiti; ed allora tutti i mezzi sono buoni per esaltare la demagogia autonomista di Salvini e il nichilismo antistato di Grillo.
E che “Dio ce la mandi buona”! E non è un’espressione scolastica (te la ricordi, Vittorio!) sulla supplente a sostituire la titolare della cattedra d’italiano, piuttosto acida e bruttina del liceo.
Rino Fruttini