La crisi della “Perugina” è preannunciata nelle pagine del mio libro “Quasi come Forrest Gump” del quale riporto di seguito un estratto

L’odierna manifestazione dei lavoratori della Perugina in piazza Matteotti, della quale la foto da me ripresa ne significa la grande partecipazione, mi dà modo di riportare di seguito una parte del mio libro “Quasi come Forrest Gump” nella quale ritrovo un amarcord che, per certi aspetti dimostra come i problemi incacreniscano, divenendo  la loro soluzione sempre più difficile.

L’ossimoro degli anni Settanta, ovvero le “parallele convergenti” del mio lavoro e dell’impegno in politica, in un decennio tutto in salita per la sequenza dei tragici eventi e la sua storia faticosa

Nel marzo del 1970 la De Rica spostò i suoi uffici di Podenzano-Piacenza, a Lucca. Nella sede della Bertolli ci furono sedie da ufficio, non ergonomiche e scrivanie per tutti gli impiegati Bertolli-De Rica, ormai integrati in un unico organigramma. Tipologia e tecnologia di prodotti, entrambi alimentari, organizzazione commerciale ed amministrativa avevano portato la dirigenza ad un’unica organica impresa, con notevoli risparmi di costo e sinergie funzionali. Ad esempio, essendo identici i punti di vendita, sia per le conserve alimentari che per l’olio di oliva e di semi, l’agente di vendita aveva un unico listino ed una sola copia commissione. Inoltre l’ordine medio per negozio era più elevato rispetto a listini divisi, con sensibili risparmi nel costo di trasporto e consegna della merce.
Finalmente avevo raggiunto, come responsabile del marketing di alcuni prodotti, l’obiettivo di un lavoro che implicava diverse attività come la ricerca di mercato, per conoscere il cliente ed il consumatore del settore, la strategia per il conseguimento dell’obiettivo economico e commerciale del proprio marchio, la gestione di tutte le operazioni tattiche necessarie per ottimizzare il piano di marketing annuale e pluriennale. Ma non voglio tediare il lettore nella descrizione di quella che fu, finalmente, la mia attività principale per almeno dieci anni. Fermo restando che per un temperamento irrequieto e intraprendente come il mio, cimentarsi continuamente con progetti da riscontrare alla distanza di trimestri, nelle fasi tattiche, e in periodi annuali se non triennali, nella fase strategica, era un modo per trovare un riscontro tangibile al successo o meno delle proprie intuizioni innovative, misurabili nel raggiungimento di fatturato e quote di mercato che i dati interni aziendali e quelli al consumo nel mercato riportavano. I panel della Nielsen, istituto di ricerca, erano lì a dimostrare.
Così ebbe corso l’anno 1970, vissuto in una godibile città come Lucca, percorsa quasi per intero da una suggestiva e stretta via medievale, il Fillungo che, se non fosse che Via dei Priori a Perugia sale per una impervia e ventosa salita, si potrebbero equivalere per architettura, toponomastica, suggestione storica per uno shopping in ambiente medievale.
Negli ultimi mesi dell’anno maturarono degli avvenimenti che facilitarono, almeno apparentemente, il mio “cursus professionale”. I miei rapporti con il direttore marketing, Franco Scardina, seppure di recente anzianità, neppure un anno era maturato, non volgevano al tempo stabile-sereno.

Uno scorcio del Fillungo a Lucca.

Scoprii già da allora che forse un’ipotesi di attività da libero professionista, meglio si sarebbe addetta al mio carattere, che non sostenere regolamenti d’ingaggio, quasi militareschi, seppure in parziale autonomia decisionale. Solo dopo quarant’anni da allora, ne potei prendere atto con soddisfazione, come vedremo nei capitoli che seguono. Ma al momento era d’uopo proseguire secondo il format proprio della mentalità manageriale anglosassone: non ti sta più bene un capo? Ebbene, lo cambi. Sei tu che ti dimetti, non lui che ti licenzia. Una filosofia del lavoro che è in netto contrasto con le motivazioni del cavalierato che ogni anno il Presidente della Repubblica assegna ai fedeli in almeno 40 anni di lavoro nella stessa azienda.
In quel momento potevo già fare apprezzare, sul mercato delle “teste d’uovo” il mio background nel “marketing di beni di largo consumo” che è quello più complesso e integrato, nell’intera area funzionale. Da qualche tempo ero a contatto con Giovanni Macciò, della direzione del personale della I.B.P. (Industrie Buitoni Perugina). Come De Rica S.p.a. faceva parte di un unico gruppo C.G.A. (Compagnia Generale Alimentari) così pure la Perugina S.p.a. nel 1969 era entrata a far parte della I.B.P. mediante un’operazione di integrazione finanziaria e di riconversione organizzativa, condotta dal giovane rampante della famiglia: Paolo Buitoni, divenuto Amministratore delegato del nuovo gruppo all’età di 33 anni. Era la stagione delle fusioni, incorporazioni, integrazioni. Allora come oggi vi era la corsa alle economie di scala, alla produttività. Tutti concetti buoni in teoria, ma difficili a realizzarsi in pratica, come vedremo più avanti.
Il personaggio era di un carisma molto tecnologico; il comportamento soft nei rapporti umani, lo assimilava in uno stile kennediano, a “colui che sa” per definizione, ed è consapevole della sua competenza; e non ha bisogno di dimostrarlo agli altri. Si muoveva nei corridoi moquettati dell’Unità centrale, la sede del suo staff negli uffici di Fontivegge a Perugia, con molta discrezione. D’altronde il suo cursus honorum era harvardiano-bostoniano. E forte di tali requisiti della east coast statunitense, divenne il beniamino non solo degli azionisti di Buitoni e Perugina, ma anche del sindacato, soprattutto nel momento in cui mise in pratica le teorie della crescita economica di Lugor Ansoff. Il suo libro: “Strategia aziendale”, era divenuto il vademecum dei managers aziendali . Io stesso lo lessi attentamente, per recepire uno dei concetti di fondo per cui da un talentuoso e creativo mix di tecnica delle sinergie di marketing, si potevano ottenere eccezionali risultati di fatturato, profitti e posizionamenti di quota di mercato, secondo il paradosso canonico: 2+2=5.

Paolo Buitoni nel 1969, a 33 anni, da poco nominato amministratore delegato dal C.d.A. della Industrie Buitoni Perugina

Mi ritrovai dunque agli inizi dell’anno 1971 nella mia città, con famiglia e prole a carico, come si usava certificare nei rapporti burocratici con le istituzioni ed il fisco, e con una funzione operativa di lavoro di tutto riguardo. Si aggiunga la possibilità di riprendere i contatti della politica attiva, non più nel Partito Liberale, ormai esaurito nelle istanze politiche ed organizzative, seppure sempre validi i principi crociani dell’individuo nella società e la molla einaudiana della libera iniziativa alla crescita, ma come dirigente provinciale nella Democrazia Cristiana, il vero soggetto propulsore di una politica che smussasse, nell’equilibrio sociale, le incompatibilità fra le categorie socio-economiche, per una società libera e pluralista.

Come ho vissuto negli anni Settanta la vita aziendale della I.B.P. (Industrie Buitoni Perugina): la sua nascita, il suo declino e la sua riconversione verso lo “statu quo ante”

Il mio ingresso nell’organigramma gerarchico-funzionale della I.B.P., così si chiama lo strumento di organizzazione e gestione aziendale che risponde alla famosa e complessa domanda: “Chi, come, dove e quando essere operativi”, fu importante per il prosieguo della mia carriera nel marketing. Sul piano teorico ero all’avanguardia rispetto allo standard aziendale; tant’è che potei dare un contributo importante, all’impostazione dell’intera area funzionale del marketing Perugina.
L’aver lavorato in C.G.A., nel marketing Bertolli-De Rica a fianco di fenomeni, antesignani, per la loro conoscenza ed esperienza, di tale disciplina, come il Mkt. Manager Scardina (Procter & Gamble), e di un P.M. come Maurizio Mazzucchelli (Henkel) o di un Mkt. Director come C. Cossen (Heinz Ltd), ovvero campioni di successi commerciali di una scuola internazionale, mi dette il privilegio di affiancare per alcuni mesi Mr. Gilbert, della Mc.Kinsey, società internazionale di consulenza aziendale che assisteva la I.B.P.. Potei “esternare” e trasferire tutto il mio sapere al mio interessato interlocutore, e portare al sistema un abbrivio organizzativo e gestionale, coerente con la strategia dell’alta direzione per i prodotti con marchio Perugina che faceva capo a Gianfranco Faina. In tal modo si era determinata a livello di area marketing, una griglia di dirigenti, quadri intermedi e personale esecutivo in grado di recepire, decodificare ed attuare la politica di marketing con un organigramma di “centralismo piramidale”. Essa veniva elaborata e trasferita alla line operativa aziendale dallo staff dello A.D., concentrato nell’unità centrale, formata da un esperto di Finanza (Pupa Antonelli), uno di organizzazione aziendale (Giuseppe Vasta), un terzo di pubbliche relazioni (Livio Zupchic), un quarto per le relazioni industriali (Francesco Pappalardo) ed infine un manager per le strategie, Angelo Tagliavia, una sorta di guru per ottimizzare risorse, mezzi ed obiettivi in un credibile piano di marketing. Quasi una mission impossible! Costoro mantenevano i collegamenti, ognuno per le proprie funzioni, con la sottostante “organizzazione in line” e rispondevano allo A.D. (amministratore delegato) Paolo Buitoni a formare l’Unità Centrale.
Tali performance che si manifestano anche in politica, una volta con la “banda dei quattro”, che rispondeva in gerarchia a Mao Tze Tung, ieri con Benigno Zaccagnini segretario della D.C. ed i suoi sodali Pisanu, Bodrato, Belci, Galloni; ed oggi con il “giglio magico” che riferisce al Presidente Matteo Renzi, dovevano consentire a Paolo Buitoni di trasferire dal vertice alla base aziendale le sue idee e intuizioni di economia aziendale. Ma in realtà né l’A.D. né i suoi staff manager furono, come si dice, performanti in convinzioni sulle idee forza che erano alla base delle sinergie Buitoni/Perugina, e sull’efficacia del loro trasferimento, nella fase esecutiva verso il mercato. Soprattutto mancava ai soggetti dell’Alta Direzione il carisma della nuova filosofia aziendale che si può sintetizzare nello slogan: “Tutte le risorse aziendali volte a interpretare e soddisfare le esigenze della domanda, attuale e potenziale, degli acquirenti-consumatori”. Una mission per la quale l’establishment Buitoni-Perugina, ancorché si riconvertisse nella company name e marchio I.B.P., non era sufficientemente dotato di quel quid di intuizione proprio del business man e di fisique du role manageriale che fanno il successo dell’imprenditoria.

Il nuovo stabilimento della Perugina di San Sisto inaugurato nel 1963.

Infatti il progetto di Paolo Buitoni che per sua natura, essendo istituzionale-finanziario e strutturale-organizzativo, non doveva avere una conclusione, se non in tempi medio-lunghi, dopo appena sette anni entrò in crisi, con le sue dimissioni.
Eppure l’idea di fondo era geniale e innovativa. Essa partiva da un presupposto di consapevolezza dei valori interni all’azienda: le competenze, il know how, l’immagine prestigiosa dei brand Buitoni e Perugina nel mercato alimentare e dolciario, la copertura dei punti di vendita. C’erano tutti gli ingredienti perché la I.B.P. si consolidasse, attraverso nuove conquiste di quote di mercato dei suoi marchi, in una dimensione multinazionale. Le competenze derivavano da un organigramma ultradecennale che fra Perugina e Buitoni poteva fornire risorse tecnologiche e manageriali di primo livello; il know how emergeva dalle quote di mercato che le due aziende avevano già raggiunto e consolidato nel mercato della pasta alimentare, dei sostituti del pane, del cioccolato, delle caramelle e degli alimenti per l’infanzia. Ugualmente i marchi Buitoni e Perugina erano già noti non solo in Italia; Buitoni in particolare, in tutto il mondo. Ed infine le decine di migliaia di clienti rivenditori che in Europa e in America ne trattavano i prodotti. E fu proprio in questa ottica di background acquisito che Paolo Buitoni rivoluzionò tutto l’establishment aziendale, organizzando l’intera line aziendale dei servizi (dirigenti, impiegati) in dipartimenti di marketing, funzionali al mercato al consumo: Occasioni Sociali e articoli regalo, con il marchio Perugina, Prima Colazione e Merenda con il marchio Buitoni e Perugina; Pasti Principali con il marchio Buitoni, e Prima Infanzia con il marchio Nipiol. Ogni dipartimento era dimensionato in un focus di marketing che traeva origine nella domanda al consumo e non dall’offerta aziendale; il processo aziendale era stato invertito; partiva dalla domanda al consumo anziché dall’offerta della produzione aziendale. Ciascun dipartimento faceva capo ai quattro migliori giovani dirigenti di allora: Gianfranco Faina, Osvaldo Peccini, Siro Pollacci, Roberto Sordini. Ciascuno di loro rispondeva per la produzione dolciaria ad Amos Grassi, e per la produzione “alimentare sapida” a Ennio Falomi, due colonne della storia aziendale. Infine con i quattro manager dell’Unità Centrale, ovvero lo staff di Paolo Buitoni, si chiudeva il processo decisionale a piramide.
È evidente che tale apparato aziendale, faceva conto su uno sviluppo del reddito nazionale, e di conseguenza una propensione crescente allo sviluppo dei consumi, in estensione geo-economica e frequenza pro capite, tale da giustificare qualsiasi acquisizione di altre aziende o il lancio di altri brand, purché coerenti con la strategia delle sinergie.
La performance I.B.P. fu meno provvida di risultati, di quanto potesse sembrare, dopo lo shopping di piccole-medie aziende disponibili alle sue acquisizioni. E così avvenne con il marchio Pepi, panforte e biscotteria di Siena, con Princes, marchio inglese di conserve, ed altri marchi meno importanti. In quel periodo l’azienda si trovava impegnata a sostenere numerose new entries, secondo il programma di espansione delle risorse tecnologiche interne, come Le Ore Liete (Biscotteria fine), il Panettone e la Colomba Perugina (Grandi Lievitati), I Sughi Pronti Buitoni, I Buitost (Sostituti del pane), e numerose estensioni di linea, come nel mercato delle caramelle, senza contare le innumerevoli iniziative promozionali, legate alle congiunture favorevoli della domanda nelle occasioni sociali (Natale, Pasqua, compleanni, etc.) e quelle degli eventi delle congiunture stagionali. La società entrò anche nel mercato delle acque minerali per l’infanzia lanciando i nuovi brand Acqua Nipiol e lo Scatto Perugina, cacao solubile istantaneo per la prima colazione del mattino.
Il lancio dell’acqua minerale Nipiol, ad esempio, fu visto dal gruppo concorrente della Sangemini quasi un affronto, alla posizione di monopolio della famiglia Violati. E due famiglie umbre nello stesso mercato non poterono che aprire, l’una contro l’altra armata, un munito fronte di sbarramento, dal quale emerse un unico vincitore: la Sangemini.
Ma il progetto non prese quota secondo i programmi esecutivi e loro obiettivi operativi. Era un bel progetto che ebbe la sventura di nascere in concomitanza con la prima crisi energetica, in un clima di austerità, nel quale neppure il tentativo, geniale sulla carta, di una pasta alimentare, La Pasta Nova, dotata di numerosi ingredienti energetici ed organolettici, che poteva coprire le esigenze nutrizionali di un pasto intero, dietetico, oggi identificabile con un brunch in regime di austerità e di tendenze vegane , riuscì nell’intento di contribuire al lancio del nuovo progetto.

Il primo shock petrolifero, la caduta della domanda dei consumi voluttuari e l’inflazione da costi del lavoro e delle materie prime. Forbice PIL/debito: il PIL inizia a declinare e l’indebitamento a incrementare.

Si era verificata una dicotomia fra il progetto del posizionamento, con successo, della I.B.P. con i suoi prestigiosi marchi di prodotto, nei mercati internazionali, così come era nella mente del suo Amministratore Delegato (oggi definibile in CEO (Chief Executive Officer) e la sua realizzazione, secondo un processo “top down”, a cascata. Era un sistema di input dall’alto verso il basso della base destinataria: dirigenti, quadri, impiegati, operai, strutture distributive, per giungere fino al consumatore finale, divenendo l’output della filiera I.B.P. con la vasta gamma di prodotti finiti come le paste alimentari, prodotti da forno, prodotti per l’infanzia ed i cioccolatini, e caramelle. E tale fenomeno di gap culturale e identitario verso la volontà del “capo”, nella trasmissione delle strategie del vertice, tale da provocare negli anni futuri una grave deresponsabilizzazione dei centri decisionali, fu amplificato dalla crisi del primo shock petrolifero del 1973, provocato dalla Guerra del Kippur di Egitto e Siria che tentarono improvvisamente di invadere Israele.
Mai il proverbio: “Chi mena per primo, mena due volte!” fu più menzognero di questo, almeno nel caso di specie. Infatti la reazione di Israele all’attacco dei paesi arabi fu così efficace, da ribaltarne le intenzioni, in pochi giorni, tanto da minacciare l’invasione dell’Egitto fino alla conquista de Il Cairo.
Per i paesi importatori di materie prime, fra i quali anche l’Italia, questo processo di crisi economica portò all’innalzamento vertiginoso del prezzo del petrolio, che in molti casi aumentò più del triplo rispetto alle tariffe precedenti. Le nazioni più colpite dal rincaro del prezzo dell’energia e della benzina , vararono provvedimenti per diminuirne il consumo ed evitare gli sprechi. Fu il periodo dell’“austerity economica” per il risparmio energetico che prevedeva cambiamenti immediati: il divieto di circolare in auto la domenica, la fine anticipata dei programmi televisivi, la riduzione dell’illuminazione stradale e commerciale. Insieme a questi provvedimenti, con effetti immediati, il governo impostò anche una riforma energetica complessiva con la costruzione, da parte dell’Enel, di centrali nucleari per limitare l’uso del greggio. Le conseguenze si infransero pesantemente anche sul PIL, il Prodotto Interno Lordo, la ricchezza di una nazione, ovvero il flusso dei beni e servizi finali, prodotti dal suo sistema economico (24).
Merita un attimo di riflessione questo strumento della contabilità statale che misura il livello del nostro benessere economico, nel corso degli anni e nei confronti di vari periodi della storia del dopoguerra. Ne consideriamo in particolare quattro:
– il primo 1951-1972 rappresenta il periodo della ricostruzione e del boom dell’economia italiana;
– il secondo 1973-1982 rappresenta la fase dei due shock petroliferi e della grande crisi internazionale che ne è conseguita con l’aumento dei costi energetici;
– il terzo: 1983-2000, rappresenta il fenomeno della grande trasformazione nell’economia internazionale con la crescente integrazione dei mercati delle merci e dei servizi, la liberalizzazione dei mercati finanziari e monetari, la ricerca di nuovi assetti nel sistema monetario internazionale;
– l’ultimo periodo 2001-2007 si riferisce alla attivazione dell’Unione Economica e Monetaria fra i paesi europei, alla globalizzazione dei mercati e al sorgere della Cina e dell’India come nuove potenze economiche.
Nel primo periodo, 1951-1972, il tasso medio annuo di crescita in Italia è stato del 5,3%; nel periodo 1973 – 1982 ha sempre continuato a crescere ma in misura inferiore pari al 3,2%. Fra il 1983 e il 2000, il tasso di crescita è ulteriormente diminuito e si è collocato in media al 1,6%. Tra il 2001 e il 2008 il tasso di crescita del PIL in Italia è stato in media dello 0,94%.
Se un’economia cresce ad un tasso del 5,3% annuo, nel momento in cui cessa un simile stato di grazia, e il PIL decresce di due punti, anche se continua a lievitare ad un tasso sempre rilevante come quello del 3,2%, tuttavia i suoi benefici si riducono di due punti percentuali dal 1973 al 1982. Da lì, il passo è stato breve verso la contrazione dell’occupazione, ed i suoi riflessi riduttivi indotti, come il reddito pro capite, il fatturato, gli investimenti. Non solo l’economia reale ne ha subito le conseguenze, ma anche quella della spesa sociale, dell’insicurezza dell’intrapresa neo capitalista verso il futuro, della protesta delle categorie marginali al processo produttivo e distributivo della ricchezza in contrazione. Ed allora il potere centrale decise di scaricare buona parte di questi malcontenti verso la periferia. Fu di quegli anni non solo la iattura dei due shock petroliferi, ma anche il decentramento delle funzioni dello Stato centrale, verso l’attuazione della Costituzione con l’insediamento del nuovo ente periferico: la regione. Venti furono le regioni, enti del decentramento di programmazione, per altrettanti centri di spesa. Ma non altrettanti venti, furono i centri di entrate, con l’imposizione fiscale. Perché chi ne ripianava le perdite era lo Stato; e non mediante incrementi di imposte.
Gli anni Settanta vennero alla ribalta, non in quanto “ruggenti” e neppure nell’aureola di un nuovo “miracolo economico”. Si caratterizzarono invece per i deficit di bilancio della Pubblica Amministrazione Allargata e per i sanguinosi attentati delle B. R.. Poi fecero la loro parte anche i sindacati con gli scioperi politici; e gli imprenditori con la tesaurizzazione dei profitti finora conseguiti, anziché reinvestirli in un business in un Paese ad alto tasso di inflazione, non rimasero con le mani in mano. In tutto questo marasma non ci mancava che Richard Nixon presidente degli Stati Uniti d’America decretasse la fine della convertibilità del dollaro statunitense con l’oro nell’agosto 1971. Nel dicembre il gruppo dei Dieci firmò lo Smithsonian Agreement, che mise fine agli accordi di Bretton Woods, svalutando il dollaro e dando inizio alla fluttuazione dei cambi. Lo standard aureo fu quindi sostituito dal più naturale sistema di cambi flessibili. Questo provvedimento provocò in Italia, paese con una moneta debole e forte importatore di materie prime, un’impennata del tasso d’inflazione con incrementi dei prezzi anche del 20%. Non solo. Le imprese industriali, come la I.B.P., dovettero sopportare, a causa dell’inflazione, un incremento dell’indebitamento dal 3-4% fino al 20% sul fatturato del conto economico. E sempre da quegli anni parte a razzo l’indebitamento dello Stato, sebbene la nazione con il suo popolo di risparmiatori incrementasse il proprio patrimonio con un’acme dell’edilizia che di lì a pochi lustri, registrò il primato dell’incidenza dei proprietari di casa sul totale della popolazione: 85%. Fu una forma tradizionale di tesaurizzazione, molto “italica” che risponde ancor oggi ad uno slogan, se non addirittura ad uno stile di vita: “il mettere i soldi sotto il mattone” e non solo sotto il materasso. Le conseguenze che oggi riscontriamo, riguardano la “crisi del mattone”, inteso sia come base strutturale sovrastimata di nuove intraprese per lo sviluppo del PIL, sia come plafond finanziario per la circolazione monetaria, ormai giunta a livelli globali insostenibili, come la grave crisi della Lehman Btrothers e i “mutui sub prime” ed i cosiddetti “derivati” del 2008 ha dimostrato. In sintesi: lo sviluppo del terziario, con le sue propaggini nell’economia virtuale della cibernetica integrata e capillarmente diffusa, non può che avere un contraddittorio parametro di “fondamentale dell’economia reale” nel mattone.
Si è voluto barattare il parametro di Bretton Woods del dopoguerra, ovvero un mix di oro e valuta forte, come il dollaro, a salvaguardia del sistema monetario internazionale, con quello del nuovo secolo, ovvero “il mattone”. Ma poi ci si è accorti che quest’ultimo era un tassello di un circuito vizioso, che a sua volta nasceva dai “mutui sub prime”, vittime di insoluti in un periodo recessivo dell’economia reale statunitense. E da tale ingarbugliato ginepraio di interessi capitalistici e politiche finanziarie degli Stati coinvolti ne è sortita la crisi delle borse azionarie ed il default, sempre minacciato ma mai decretato, la lezione della Lehman Brothers insegna, delle banche più esposte.

(24) Si fa sempre un gran parlare del PIL. Mi piace puntualizzarne la dimensione concettuale e quantitativa. Il Prodotto Interno Lordo è un valore, espresso in €. che misura quanto gli italiani hanno realizzato in un anno sommando i consumi privati, i consumi pubblici ovvero della Pubblica Amministrazione, centrale e periferica (spese per la giustizia, istruzione, sanità, etc.), gli investimenti (immobiliari, mobiliari) e il saldo della bilancia commerciale.
Con il PIL ne viene misurata la variazione di valore nel corso di un anno. Nel computo del PIL si considerano solo beni e servizi finali, per evitare duplicazioni di valorizzazione che si potrebbero verificare, considerando materie prime o semilavorati che entrano nella produzione di altri beni. Ad esempio la farina per la produzione del pane o la semola, per quella della pasta, non sono calcolate nel computo del PIL. I suddetti prodotti (pasta e pane) e/o servizi sono misurati in termini di valori monetari, e cioè di quantità per i relativi prezzi al netto di inflazione, e non di quantità fisiche. Per evitare che la crescita del PIL nominale, determinata da un eccessivo aumento dei prezzi, possa essere scambiata per una crescita reale della quantità dei beni prodotti, si fa riferimento a serie misurate a prezzi costanti.

Conferenza di produzione della I.B.P.: 14 febbraio 1976. Dimissioni di Paolo Buitoni da Amministratore Delegato della I.B.P. nell’ottobre del 1976. Brigate Rosse, rapimento e assassinio del Presidente Aldo Moro marzo-maggio 1978

I sei anni della gestione di Paolo Buitoni a capo della I.B.P. coincisero con le mie esperienze in politica, nella direzione provinciale della Democrazia Cristiana e come rappresentante sindacale dei “quadri”, i colletti bianchi (impiegati di 1° categoria), nel consiglio di fabbrica della Perugina. Partecipai alle elezioni del consiglio comunale di Perugia del 1975, ma senza risultati clamorosi. D’altra parte mi ero da poco ristabilito da una lunga influenza invernale dalla quale svernai, per mia fortuna, dopo aver superato brillantemente un ciclo di polmonite – pleurite – pericardite. Ciò non mi impediva di scrivere editoriali locali di economia per la Nazione, quando il capo redattore era Bruno Brunori, e poi per il Messaggero dell’Umbria, diretto da Luigi Palazzoni, alternati con qualche articolo sulla Voce nel periodo in cui era diretta dal compianto Don Elio Bromuri.
La mia intraprendenza nelle vicende aziendali, nell’ottica politica e sindacale, a volte mi portava fuori del seminato, almeno quello che la direzione intendeva per le mie mansioni e competenze di Product Manager. Ma la mia curiosità intellettuale, la continua ricerca di tempi e modi per capire gli avvenimenti e viverli, magari provocandone e condizionandone gli epiloghi, era più forte dei rischi di non essere considerato dall’alta direzione uno stakanovista del lavoro. Come poi accadde, con alcune penalizzazioni.
Le mie conoscenze e competenze, teoriche e pratiche in materia di strategie aziendali e politica industriale furono molto apprezzate dal Consiglio di Fabbrica e dal Sindacato, tant’è che quando a metà degli anni Settanta, in un clima di consociativismo e di teorizzazioni sulla partecipazione del lavoratori alle scelte aziendali, il Sindacato decise di organizzare una Conferenza di Produzione della I.B.P., fui incaricato , tramite il segretario regionale della Cisl Roberto Pomini, di elaborare la relazione introduttiva dei lavori. Ma la mia idea sul ruolo dei lavoratori e la loro partecipazione al processo decisionale dell’azienda e la valutazione sulle difficoltà del posizionamento nell’ambiente finanziario, commerciale e delle relazioni industriali del nuovo soggetto I.B.P. si rivelarono molto diverse da quella di un sindacato contraddittorio, “protagonista aziendalista e antagonista padronale”, allo stesso tempo: quasi due parti in commedia. Per cui la mia relazione fu recepita pari, pari per la parte asettica, dell’analisi economica e di marketing, mentre la strategia da me pensata e proposta venne completamente stravolta. Infatti il sindacato avrebbe dovuto comprendere che la situazione dell’azienda era precaria sotto il profilo del fatturato, e inferiore al budget, sul quale erano stati calcolati i costi standard, del lavoro, energia e materie prime. E il conto economico, sbilanciato su tutti i livelli di input (risorse) ed output (opportunità), non avrebbe consentito l’autofinanziamento degli investimenti.
In particolare si doveva prendere atto che le forti pressioni sindacali sul superamento della stagionalità della produzione del cioccolato , e di conseguenza della “cassa integrazione guadagni” di gran parte dei lavoratori dello stabilimento di san Sisto, non avevano prodotto alcun risultato positivo ma, al contrario, con la “linearizzazione” della produzione nel corso dell’anno, a cui seguiva lo stoccaggio dei “prodotti finiti” nelle celle frigorifere, la qualità del prodotto veniva sensibilmente a scadere. Anche i bambini sanno che se una tavoletta di cioccolato viene messa in frigorifero per allungarne il periodo di consumo, affiora il burro di cacao e ne risentono le caratteristiche organolettiche (colore, odore, sapore). Da che mondo è mondo il cioccolato si produce per un consumo che parte da settembre/ottobre, ed arriva all’esaurimento nel maggio dell’anno seguente.
Stagionalità di produzione significa stagionalità di lavoro.
Invece il sindacato pareva volesse giocare a fare impresa. E l’impostazione che venne data alla conferenza di produzione, nonostante i miei rilievi e tentativi di venire a miti consigli, rispetto agli slogan velleitari, poiché l’azienda non aveva ossigeno per superare la prima e tanto meno la seconda crisi energetica, emerse dall’intervista che il personaggio più evoluto della CGIL, Paolo Brutti dette a l’Unità il 14 febbraio del 1976.
In questa prima parte dell’intervista emerge la volontà di un protagonismo della “classe operaia” che va oltre la stagione della “lotta dura e pura”; si evocano ruoli dirigenziali nell’elaborazione della strategia per le condizioni dello sviluppo, non solo salariale, e si richiede l’assunzione di una responsabilità di “…ricognizione complessiva del tessuto produttivo…”.
L’obiettivo della Conferenza di produzione non era circoscritto al rinnovo del contratto sindacale: “La vera posta in gioco – afferma Brutti – è l’assetto complessivo della base produttiva e dello sviluppo”. Fu questa la frase chiave, il concetto di fondo di una presunta evoluzione del sindacato verso una governance I.B.P. che lo responsabilizzasse nelle funzioni di una cogesione della “base produttiva” con l’imprenditore; e la produttività doveva coinvolgere in prima persona l’organizzazione dei lavoratori e del lavoro, in quanto il costo del lavoro doveva intendersi quale parametro dell’efficienza aziendale, misurato nel “numero di prodotti realizzati da un operaio nell’unità di tempo”. E poi l’altro lato della posta in palio, era lo sviluppo. Il quale non poteva prescindere dalla produttività.

L’intervista di Paolo Brutti

Siamo in pieno gergo capitalistico che, mutuato nell’operatività del processo industriale, conduce il ragionamento di Brutti, suo malgrado, verso una classe operaia proiettata nell’agone della competizione dei mercati, i quali sono molto più sensibili alla domanda della classe dei consumatori che non a quella proletaria, che in buona sostanza coincidono! Salvo poi avvedersi che la “classe operaia [non] va in paradiso” ma deve rimane con i piedi per terra, nella ricerca di punti d’incontro con la controparte padronale.
Un dato di cronaca, molto significativo, fu la partecipazione alla conferenza del responsabile delle relazioni industriali del gruppo, Francesco Pappalardo e di altri esponenti dell’alta dirigenza. Era un segnale di collaborazione, di tacita intesa, quasi a far capire al sindacato che la I.B.P. aveva bisogno di un periodo di tranquillo traghettamento dalla tradizionale dimensione padronale-accentratrice a quella ambiziosa di multinazionale alimentare, volta allo sviluppo di investimenti e occupazione, perché organizzata in una gamma di linee tecnologiche e di marketing. Anch’io, nel mio piccolo, con la relazione preparata per la conferenza, avevo cercato di far capire questi concetti. Ma per tutta risposta venne indetto un nuovo sciopero.
La strategia di Paolo Buitoni se concettualmente valida, secondo la teoria delle “sinergie” si rivelò debole, per due motivi fondamentali: mancarono i fattori di successo per un flusso positivo della domanda di consumo; inoltre la struttura organizzativa di Buitoni e Perugina ed il background culturale d’impresa non fu all’altezza della mission che l’Amministratore delegato aveva assegnato ai nuovi Dipartimenti manageriali.
La morale di tutta l’operazione con la quale erano stati rivoltati come un calzino, gli equilibri dell’assetto tradizionale di Perugina e Buitoni, fu che Paolo Buitoni fu costretto a dare le dimissioni da A.D. nel 1976. Lo sostituì il suo cugino Bruno Buitoni; a lui il compito di ritornare allo statu quo ante. Si potrebbero fare ipotesi di simulazione con modelli matematici per capire se il disegno di Paolo Buitoni, superata la crisi del mercato italiano degli anni Settanta, con maggiori sostegni finanziari delle banche poteva decollare, forte della sua capacità propulsiva di imporsi sui mercati. Resta un mistero il motivo per cui, a fronte della crisi del mercato domestico, l’azienda non riuscì ad imporsi e conquistare nuove quote di mercato con i marchi Buitoni e Perugina sui mercati esteri, ed americani in particolare. Infatti la crisi dei consumi di quel decennio colpì soprattutto l’Italia, ma non altrettanto i mercati del nord America, dove il gruppo poteva contare su rete commerciale e punti di vendita di prim’ordine. Tuttavia il sindacato aveva già diffidato l’azienda dall’intraprendere azioni di delocalizzazione di siti produttivi in aree extranazionali.
La chiamata di correo verso il management dell’intero gruppo emerge chiaramente dall’intervista dell’Amministratore delegato uscente su La Repubblica del 6 ottobre 1976. “Non appena, dal 1973 in poi, cominciai ad occuparmi a fondo della struttura italiana e quindi perugina del gruppo, mi scontrai inevitabilmente con l’organizzazione tradizionale e con gli uomini che la gestivano: avviai un grosso rinnovamento di quadri dirigenti: aprii un colloquio all’interno dell’azienda con i sindacati e fuori dall’azienda con le istituzioni che amministrano la città e la regione. Questo processo è andato avanti ed ha messo in moto, in grande allarme tutto quel mondo perugino tradizionale che viveva per un motivo o per l’altro attorno al nostro gruppo. Credo che questo abbia segnato il punto di svolta nei rapporti fra me e il gruppo di cui dicevo (Bruno Buitoni, Spagnoli ndr)”.
In alcune dichiarazioni del 2005 al direttore di Umbria Reporter, Bruno Buitoni, che successe a Paolo nella responsabilità di Amministratore Delegato, dal 1976 al 1985, pone in tre concause la crisi del gruppo : la mancanza di liquidità, che poteva essere sopperita dal ricorso all’approvvigionamento di capitale fresco nel mercato della borsa; il litigio costante fra i 13 componenti, parenti/serpenti, delle due famiglie Buitoni e Spagnoli, nel consiglio di amministrazione; l’ottusità del sindacato perugino “…che arrivava sempre con dieci anni di ritardo, accorgendosi dei fenomeni solo dopo , quando questi si erano verificati. Basti dire che l’I.B.P., prima di vendere, dovette assumere 400 dipendenti anche se era in crisi. E la cosa che mi ha fatto sempre infuriare è che una volta erano sempre sul piede di guerra. Da quando c’è la Nestlè, invece, sono stati sempre zitti”.
Ma già con la caduta di Paolo Buitoni, da quel momento il destino direi quasi, cinico e baro della povera I.B.P., era già segnato. Tanto più che l’imprenditoria umbra non fu all’altezza di assumersi solidali responsabilità verso il gruppo, rilevandone quote azionarie e capacità/opportunità d’impresa. Ed il risultato è stato che nel corso di pochi anni Bruno Buitoni vendette l’intero assett aziendale, che non era solo edifici, impianti di produzione e forza lavoro, ma anche conoscenza, tecnologia, know how, immagine di marchi, penetrazione commerciale, alla CIR di De Benedetti e poi, secondo la classica dinamica delle filiere speculative, dopo solo tre anni, da questi alla Nestlè. Ed appare a tutti evidente ancor oggi come questa grande multinazionale alimentare svizzera non abbia compreso come andava gestito il marketing della gamma Buitoni che negli anni Settanta era market leader nelle fette Biscottate, ed era seconda nel mercato della pasta di semola, dopo Barilla e nel mercato dei prodotti per l’infanzia, con il marchio Nipiol, dopo Plasmon. Mentre tecnologie, know how di packaging e confezioni, capillarità nella gestione dei clienti del marchio Perugina sono state svilite da una presunzione svizzera di standardizzazione che evidentemente ha nuociuto
grandemente ai livelli occupazionali raggiunti con quella gamma di prodotti, man mano o tolti dal listino o esternalizzati nella produzione ad altre aziende concorrenti che un sindacato cieco e ingenuo non ha saputo difendere, com’era suo dovere.
In quegli anni facevano molto parlare di sé le brigate rosse, il maggiore, più numeroso e più longevo gruppo terroristico di matrice marxista-leninista del secondo dopoguerra esistente in Europa occidentale. I loro capi rispondevano al nome di Renato Curcio, Alberto Franceschini, Renato Cagol. Si trattò di un movimento politico rivoluzionario, con una strategia ed un’organizzazione articolata nelle fabbriche, che intendeva con la violenza sovvertire lo Stato borghese e trasformarlo nella dittatura della classe operaia. Per questo i brigatisti erano presenti nelle assemblee sindacali, dove fomentavano l’odio verso i padroni e lo stato borghese. Ed a tale scopo prendevano spunto dalla strage alla Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana per definirla “strage di Stato”, in quanto provocata dai servizi segreti, per dissuadere il cammino delle lotte operaie e studentesche. Questo fu il “leitmotiv” più efficace dei brigatisti, per influenzare il dibattito già in corso in molte formazioni extraparlamentari sull’uso della violenza e sollecitarne l’impulso, per la creazione di un gruppo armato di autodifesa.
L’azione eversiva delle B.R. culminò nel 1978 con il rapimento e l’assassinio del Presidente Aldo Moro. Con tale azione le B.R. non ottennero certamente il colpo di Stato proletario, ma il compromesso storico di cui Moro, con la formula della “strategia dell’attenzione” insieme a Berlinguer era l’artefice principale, entrò in crisi e si risolse soltanto con l’appoggio esterno del PCI al governo Andreotti votato dal Parlamento subito dopo i tragici avvenimenti.

Alcuni abstract dalla rivista del PCI regionale “Cronache Umbre” sulla vicenda I.B.P.

Scartabellando fra le carte provenienti ” dagli atri muscosi e dai fori cadenti…”(28) di qualche biblioteca cittadina ho trovato diversi scritti, frammenti del pensiero di autorevoli esponenti politici e sindacali umbri degli anni ’71-‘72 sulle vicende della I.B.P. Una rivista bimestrale , quotata negli ambienti della sinistra dal titolo “Cronache Umbre, quaderni di dibattito politico”, diretta dall’amico Franco Massarelli in più di un numero si cimenta in dissertazioni , inchieste, interviste per meglio capire quali fossero le prospettive del gruppo, una volta trasformatosi in I.B.P.
Lo stesso presidente della regione di allora, Pietro Conti si pone una serie di interrogativi osservando le incertezze del gruppo in materia di relazioni industriali. Altri personaggi, improvvisati scrittori su tematiche di politica industriale e dotti esegeti in analisi critiche, sulle strategie del gruppo, hanno elaborato complesse valutazioni che, con il senno di poi, appaiono comunque sopra le righe del buon senso in materia di politica industriale.
La verità è che i politici locali di allora, sia di sinistra, PCI, PSI e derivazioni, sia della DC, attraverso notizie e impressioni di seconda mano di fonte sindacale, cercava di assumere una veste di interlocutore privilegiato verso la proprietà, divisa in due filoni dei Buitoni ed altrettanti della famiglia Spagnoli.
Tre dei quattro capofila degli azionisti ebbero una valida ed operativa collocazione funzionale nel gruppo: Bruno Buitoni, presidente; Paolo Buitoni Amministratore delegato; Gianni Spagnoli capo delle ricerche. Lino Spagnoli si mise fuori da incarichi operativi. La proprietà rimase unita solo nel momento in cui venne dato il benestare al giovane Paolo Buitoni, di realizzare la rilevante operazione di integrazione Perugina-Buitoni. Poi, dopo le sue dimissioni, veleggiò “over all feeling”, ovvero quasi a casaccio, dove tira il vento. Ma non andava certamente “…là dove ti porta il cuore”.
Dalla lettura degli articoli delle Cronache Umbre deduco che la strategia del giovane A.D. non venne capita dalla sinistra. “L’ipotesi che circola… è quella di una manovra ad alto livello nel mercato finanziario, con un trasferimento del pacchetto azionario… ad una finanziaria dell’IRI” (30). Così esordiva Pietro Conti, a cui fece eco un’altra ipotesi di intervento finanziario dell’Iran, allora ricco componente petrolifero dell’OPEC, con lo Scia Reza Pahlavi, ed infine una comunicazione riservata di Enrico Cuccia, presidente di Mediobanca secondo il quale alla I.B.P. mancava un tutor finanziario, che ne garantisse verso i terzi, la capacità di sostenere un ambizioso programma di espansione, senza il rischio di squilibrio del conto economico, con l’indebitamento verso le banche, in una fase della economia nazionale ed europea di fragilità congiunturale.
Ma quello che più mi sorprende è la grande presunzione di politici e sindacalisti di dare consigli dettagliati sulle politiche di marketing, nel rapporto prezzi/qualità/presentazione del prodotto “cioccolato” sul mercato; o come realizzare la diversificazione della gamma dei numerosi prodotti e tecnologie Buitoni/Perugina nei mercati, nazionale ed esteri. Mi viene da sorridere rievocando queste amenità. Fra Perugina e Buitoni, in Italia e nel mondo, il listino prodotti era composto da migliaia di voci, con una diversificazione merceologica che abbracciava tutte le tecnologie agroalimentari disponibili sul mercato.
Nel sindacato si manifestò la grande preoccupazione, anch’essa registrata nelle colonne di “Cronache Umbre”, della volontà dell’azienda, di disinvestire dall’Italia all’estero, non avendo compreso che l’Italia degli anni Settanta era ancora sottodimensionata rispetto al resto dei paesi e mercati al consumo, in termini di costo del lavoro e di produttività.
Una delle tante frasi “nonsense” nell’intervista sopra citata: “Individuare subito… proposte di ristrutturazione della gamma merceologica degli attuali impianti della Perugina: prodotti cioè che siano per un mercato reale e a prezzi giusti, accessibili alla grande massa”; la realtà era invece una mano d’opera esuberante, rispetto alla capacità di assorbimento del mercato. Ricordo che ci fu un’occasione nella quale convocati, come Consiglio di Fabbrica, dalla direzione delle relazioni industriali (Dr. Francesco Pappalardo) ci venne comunicata l’intenzione di spostare la mano d’opera esuberante, rispetto alla caduta sensibile di vendite dei prodotti dolciari di San Sisto, nel settore tessile-abbigliamento. Si trattava di un progetto di riconversione industriale e soprattutto di mano d’opera femminile, addetta al confezionamento delle uova pasquali e al packaging cioccolatini, e pertanto con expertise di manualità interessante in un settore, come quello indicato, nel quale Perugia poteva vantare già d’allora la dimensione di
“distretto industriale”, con tutte le implicazioni positive che esso comportava: innovazione, attività indotte, potenziale “fasonismo” (31), propensione all’export, etc. Tale proposta venne interpretata da parte del sindacato come una provocazione alla sua intelligenza. Ed il povero Pappalardo se ne tornò a mani vuote dal suo referente.
Uno dei minus di Paolo Buitoni era la carenza di carisma verso le forze sociali. Ecco, forse un fisique du role come quello di Brunello Cucinelli lo avrebbe senz’altro agevolato nelle relazioni industriali alle quali, almeno le più importanti, avrebbe dovuto sovraintendere, senza delegare manager asettici e supponenti.
La crisi I.B.P. era lo specchio della crisi del Paese, messo in ginocchio da ben due shock petroliferi. Ancora una volta il mondo arabo, questa volta non in nome di Allah, ma del dio “quattrino” ci spingeva nell’angolo “dell’inflazione da costi”, con le drammatiche ripercussioni sul potere d’acquisito dei salari in un contesto di “caro vita” sempre più pressante.
Ma cosa volevano diversificare, i cari amici della sinistra perugina, se già la pasta di semola Buitoni, come quella delle altre marche, peraltro, era in regime di “prezzi amministrati” imposti dallo Stato, a fronte di un costo delle semole in incremento ed un costo del lavoro ormai definito, demagogicamente, “variabile indipendente del sistema”? Ed in una simile situazione di redditività e produttività, dove poteva andare una I.B.P. nata per la crescita dei propri mercati di riferimento e lo sviluppo dei suoi programmi di occupazione, fatturato e profitti? E la corda era talmente tesa che dopo le centinaia di attentati delle brigate rosse ed effervescenze sovversive postsessantottine, dei movimenti comunisti ad esse collegati, con il rapimento dell’Onorevole Moro una svolta politica fu quasi obbligata. E l’epilogo della governabilità fu il precario governo Andreotti, con l’appoggio esterno del PCI di Berlinguer, seguito dopo poco più di un anno da elezioni anticipate e dal ritorno del PCI all’opposizione.
In un simile fosco scenario, ormai la I.B.P. era scomparsa di scena ed i suoi registi e mentori rientrarono alcuni nell’ombra dell’archeologia dei progetti industriali incompiuti. Altri sopravvissero per portare su un piatto d’argento Buitoni e Perugina al Dr. De Benedetti piuttosto che cederla alla francese Danone. Scriveva Eraldo Gaffino su La Repubblica del 2 febbraio 1985 inneggiando all’operazione: “Innanzitutto si evita che una fra le più qualificate società presenti nel listino azionario italiano finisca sotto il controllo straniero, così com’ è accaduto per la Ras (ceduta ai tedeschi della Allianz) e a molte altre medie società farmaceutiche italiane. Si evita poi che nel settore alimentare italiano penetri un gruppo aggressivo ed in espansione come quello francese, che tanti problemi poteva creare anche alle altre aziende alimentari italiane”.
Anch’io, ad onor del vero, ormai fuori dai ranghi I.B.P., essendo a Roma impegnato in altro incarico al Ministero del Mezzogiorno di cui tratterò in seguito, scrissi un editoriale su La Nazione/Umbria vagheggiando una fusione per incorporazione di SME in I.B.P., con Perugia baricentro del secondo complesso agroalimentare europeo. Un personaggio dell’imprenditoria umbra, Lino Spagnoli, tuttavia aveva capito dove De Benedetti voleva arrivare. Le sue performance erano soprattutto finanziarie, speculative piuttosto che industriali. La storia della Olivetti, liquidata in pochi anni ne era già stata sufficiente testimonianza.

Alla sede degli industriali l’incontro del nuovo A.D. della IBP Ing. Carlo De Benedetti con il Presidente della regione Umbria Germano Marri, e con alcuni dirigenti degli industriali perugini

È anche vero che De Benedetti stava trattando nel febbraio del 1985 contemporaneamente su due tavoli: quello della I.B.P. e quello dell’Iri, con Romano Prodi. Ma quando Craxi intervenne per evitare che l’intraprendente personaggio acquistasse troppo potere, saltò il banco. E Prodi, presidente dell’IRI, fu costretto ad adottare la strategia dello spezzatino. Una ad una, le aziende della SME furono vendute a diversi compratori del mercato. Dalla vendita separata di solo alcune delle società del Gruppo, si ricavò più del doppio rispetto a quanto offerto solo alcuni anni prima da De Benedetti.
Dopo solo tre anni, nel 1988 De Benedetti vendette tutte le attività del gruppo alla Nestlè. Oggi (32) il fenomeno della contrazione delle quote di mercato dei prodotti Perugina-Buitoni e della loro diversificazione è sotto gli occhi di tutti. Basta leggere i listini di vendita delle due aziende, nel confronto con gli anni Settanta per rendersene conto!
Della vicenda I.B.P. se ne potrebbe fare un “case history” per la formazione di marketing manager del futuro. Almeno tre le morali di conduzione imprenditoriale e manageriale alle quali attingere. La prima vale per Paolo Buitoni: una strategia aziendale, benché geniale in teoria, va saputa adattare al mercato ed alle sue congiunture. La seconda per il sindacato: la pressione ideologica di classe, la lotta della rivendicazione salariale non è la soluzione per “tutte le stagioni”. A volte è più utile la partecipazione nella cogestione dell’azienda, piuttosto che procurarne il fallimento. È un concetto di semplice logica economica che nella seconda metà degli anni Settanta sembrò prendere vigore solo nella CISL, per poi esaurirsi, senza trovare conforto nelle altre due confederazioni: la Uil e la Cgil. La terza per la categoria degli imprenditori, che confondono l’azienda, nella sua “personalità giuridica”, come una proprietà esclusiva, che inizia e termina con la stessa vita del soggetto imprenditore. Si verifica in tal modo l’equivoco che l’azienda si identifichi con una o due generazioni, al massimo, del soggetto imprenditore, per poi cessare di esistere per mancanza di continuità nelle generazioni imprenditoriali successive. Al contrario la vita aziendale deve essere ben più lunga di quella imprenditoriale.
Di tali questioni ebbi modo di discutere in convegni e pubblici dibattiti quando fui responsabile dei G.I.P. (Gruppi di impegno politico) della Democrazia Cristiana perugina, con Franco Marini, segretario della Cisl, ed i deputati umbri DC Franco Maria Malfatti, Luciano Radi, Giorgio Spitella e molti altri esponenti di partito.

(28) Uso uno una parafrasi delle prime strofe dell’Adelchi di Alessandro Manzoni. “Dagli atrii muscosi, dai Fori cadenti, / dai boschi, dall’arse fucine stridenti, / dai solchi bagnati di servo sudor, / un volgo disperso repente si desta; / intende l’orecchio, solleva la testa percosso da novo crescente romor”.

(30) “Dentro l’uovo c’è Petrilli” Franco Totoro intervista a Piero Conti in Cronache Umbre del febb. 1972.

(31) Fasonismo: forniture per conto terzi.

(32) Siamo nell’agosto del 2016.

Nel 1973 nacque Umbria Jazz per iniziativa di Carlo Pagnotta (è il seguito del mio libro “Quasi come Forrest Gump”)

(Da leggere acquistando il libro)